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Ilaria del Carretto, il mistero impresso nel marmo

A tutti è capitato nel corso dei nostri anni scolastici di imbatterci nell’opera scultorea dedicata a Ilaria del Carretto, soffermarci un po’ citandola come “una fra le opere principali di Jacopo della Quercia, insieme alla Fonte Gaia”, e poi abbandonarla per dedicarci ad altri nomi come Donatello o Masaccio.

Ma perché il “Monumento funerario di Ilaria del Carretto” meriterebbe un po’ più di attenzione?

Prima di rispondere alla domanda, vediamo un po’ di storia.
Ilaria del Carretto (Zuccarello, 1379 – Lucca, 1405) figlia di Carlo I del Carretto, primo marchese Del Carretto di Zuccarello, e di Pomellina Adorno, fu la seconda moglie di Paolo Guinigi, signore di Lucca.
Non si hanno molte notizie riguardanti Ilaria, se non documenti che testimoniano il suo matrimonio, la nascita dei figli e la morte successiva al parto della figlia Ilaria Minor.
Ilaria morì a soli 26 anni e il marito decise di commissionare allo scultore senese Jacopo della Quercia un’opera dedicata alla sfortunata moglie: il Monumento funerario di Ilaria del Carretto, realizzato fra il 1406 e il 1410 è diventato, nel corso del tempo, uno dei simboli della delicata fase di transizione tra il gusto gotico e quello rinascimentale.

In realtà, benché si tratti di un monumento funebre, il corpo della giovane sposa non fu mai deposto all’interno, ma dovrebbe trovarsi nella cappella situata all’interno della villa della famiglia Guinigi; inoltre una campagna di scavi svoltasi nel 2012 a Lucca, ha permesso il ritrovamento di quelli che potrebbero essere considerati i resti di Ilaria Del Carretto, insieme ad altre due mogli di Paolo Guinigi.

Il sarcofago venne inizialmente posto nel transetto della Cattedrale di San Martino di Lucca presso un altare patronato della famiglia Guinigi, tra il Monumento funebre di Domenico Bertini e il pilastro angolare. Un frammento del piano di posa, una striscia ben visibile di pavimento caratterizzato da pietre strette e lunghe, in contrasto con la complessiva pavimentazione, testimonia l’antica posizione del sarcofago.

Nel 1430 la Signoria dei Guinigi decadde, Paolo venne esiliato dalla città e i suoi beni sottoposti a confisca e il Monumento fu sottoposto allo spoglio di tutti gli elementi di rimando al tiranno: la lastra con lo stemma e un’iscrizione commemorativa andata perduta.

Ad oggi il sarcofago è stato dotato nuovamente delle parti sottratte e, dal 1887, è posizionato all’interno della Sacrestia del Duomo di San Martino dove è visitabile.

La giovinezza impressa nel marmo: la scultura di Jacopo della Quercia
«[…] Ora dorme la bianca fiordaligi |chiusa ne’ panni, stesa in sul coperchio | del bel sepolcro; e tu l’avesti a specchio | forse, ebbe la tua riva i suoi vestigi. | Ma oggi non Ilaria del Carretto | signoreggia la terra che tu bagni, | o Serchio […]» (Gabriele D’Annunzio, Elettra)

L’opera di Jacopo della Quercia si distacca dalla tradizione, solitamente l’effigie del defunto era scolpita su una lastra pensata per essere posta sul pavimento piuttosto che un ritratto in un baldacchino visibile frontalmente: nell’opera dedicata ad Ilaria del Carretto, lo scultore scolpì il corpo della donna stesa sopra un basamento isolato facendo sì che fosse visibile da tutti i lati.
La scultura può essere analizzata in due parti: il sarcofago e la lastra di copertura.
Il basamento è composto da quattro lastre, sui lati corti si trovano da una parte una croce arborata e dall’altra uno scudo con gli stemmi dei Guinigi e dei Del Carretto; sui lati lunghi, le lastre (una realizzata da Jacopo della Quercia, l’altra da un collaboratore) sono decorate da putti che reggono dei festoni. È un invito all’osservatore a camminare intorno al monumento (facilitato dalla posizione in cui si trova).

Sopra questa base, scavata nel marmo di Carrara, appare scolpita in rilievo a grandezza pressoché reale, la dolce effigie di Ilaria del Carretto. Il corpo della donna è reso con incredibile realismo, sia nella resa del volto che nelle vesti che aderiscono alla figura creando pieghe che rendono ancora più credibile l’opera.

La giovane donna ha i capelli mossi, minuziosamente raccolti in una tipica acconciatura dell’epoca detta cercine, con una fascia decorata con foglie e fiori.

 

Anche l’abbigliamento rispecchia la moda dell’epoca, Ilaria è scolpita con addosso una pellarda, una veste tipica del costume franco fiammingo, stretta da una fascia sotto il seno e lunga fino ai piedi, le vesti abbondanti e il colletto rigido.

Ma è ai piedi della donna che troviamo un elemento simbolico fondamentale dell’opera: un cagnolino che giace accucciato con la testa alta in attesa di un ordine della padrona.
Cosa rappresenta questo animale? È simbolo della fedeltà coniugale, probabilmente un segno dell’amore che Paolo provò per la giovane moglie, che rende ancora più familiare e affettuosa quest’opera.

Ma allora perché è importante parlare di questa scultura?
Perché Ilaria del Carretto, sebbene si sappia poco o nulla su di lei, è diventata uno dei simboli di Lucca e ha un posto di rilevanza all’interno del Duomo della città.
Tante domande secondo me sono ancora senza risposta, per esempio perché Paolo fece commissariare un’opera solo per lei e non per le altre tre mogli?

Apriamo una piccola parentesi sulle altre mogli di Paolo Guinigi: la prima fu Maria Caterina degli Antelminelli, ultima discendente ed erede della ricchissima famiglia di Castruccio, sposata poco più che bambina sul finire del 1400, e morta, secondo quanto dicono le antiche cronache, pochi mesi dopo, senza lasciare eredi; Ilaria fu la seconda moglie e dopo di lei Piacentina di Rodolfo da Varano, signore di Camerino, che diede a Paolo cinque figli in nove anni di matrimonio; Jacopa d’Ugolino Trinci di Foligno fu la quarta e ultima moglie, che diede alla luce una figlia che sopravvisse solo per qualche ora, morta anche lei dopo essere rimasta gravemente inferma dopo il parto.

Sulla perdita di Ilaria ci sono varie speculazioni, universalmente accettata è la morte successiva alla nascita della seconda figlia a causa di un parto travagliato, si dice anche possa essere stata una peritonite trascurata, però circolano anche voci e leggende a riguardo. Alcune donne del patriziato lucchese vicine alla vita di corte divulgarono il dubbio che Ilaria sarebbe stata avvelenata dal marito geloso, e l’avvelenamento avrebbe coinvolto anche il cagnolino di Ilaria, l’animale a cui la donna doveva essere particolarmente affezionata, poiché riprodotto ai piedi della sua effige marmorea.

L’opera merita molta attenzione perché, oltre alla maestria del componimento, segna un punto fondamentale nelle arti del Quattrocento italiano, nonché uno spartiacque dall’arte gotica che è visibile nell’opera nella dolce figura di Ilaria; ma i volumi, i contorni, le forme, le proporzioni, e soprattutto il realismo della rappresentazione nonché il recupero degli elementi classici greco-romani sono aspetti che preludono alla grande stagione del rinascimento.

Foto di Mattia Barbella
©Noemi Spasari, 2020