What's happening?

“Donne sul fronte”, la serie di graphic journalism e la lotta per la verità

“Donne sul fronte” è la prima grande serie italiana di graphic journalism edita da PaperFirst in collaborazione con Il Fatto Quotidiano e Round Robin. Le copertine di tutte e sette i volumi sono a cura di Irene Carbone.
L’obiettivo di questa collana è di raccontare i conflitti in terre che apparentemente sembrano lontane, ma che in realtà sono più vicine che mai, mettendo al centro della scena un lavoro giornalistico tutto al femminile. In questi sette volumi, un “femminile plurale”, giornaliste raccontano altre giornaliste passate alla Storia e insieme a esperienze dirette di reporter italiane che dal fronte di guerra hanno raccontato, in prima persona, il dramma di un conflitto e delle sue vittime.
Una nuova, geniale a parer mio, idea per far conoscere una storia ancora viva.

Il primo volume è dedicato a Oriana Fallaci, indubbia protagonista del giornalismo italiano, in prima linea nel raccontare gli orrori della guerra del Vietnam. Ed è proprio di questa guerra che si parla in questo primo episodio dal titolo “Oriana Fallaci. Il Vietnam, l’America e l’anno che cambiò la Storia”, a cura di Eva Giovannini e disegni di Manuela di Cecio.


Il volume si apre con un’intervista a cura della Giovannini a Kim Phúc, la “Napalm girl”, nota per essere stata ritratta da bambina in una famosa fotografia scattata nel ‘72 durante la guerra del Vietnam, che la mostra mentre fugge completamente nuda insieme ad altri bambini, ustionata da un bombardamento al napalm delle forze aeree del Vietnam del Sud. Un’intervista che trasmette ancora dolore, dopo quasi cinquant’anni.
Si passa poi alla storia di Oriana Fallaci, prima per immagini, poi con testo narrato. La Fallaci al tempo della guerra del Vietnam era un’inviata sul luogo de L’Europeo, accompagnata a Saigon da Gianfranco Moroldo, fotografo della stessa rivista. Il suo è un reportage dal fronte, unito al suo racconto intimo, delle sue emozioni. Il racconto vede tre viaggi della Fallaci in Vietnam, unito alla rivoluzione portata avanti da Martin Luther King in America e il suo assassinio; anni pieni di eventi carichi di differenti significati, fra cui il lancio dello Shuttle sulla Luna e la nascita dei movimenti pacifisti contro la guerra in Vietnam.

In queste pagine rese vive grazie alle illustrazioni si vede la grande donna e la coraggiosa giornalista che era Oriana Fallaci, sempre in prima linea, dalla grande capacità “confessionale”, dall’infinita passione per il suo lavoro.
Oriana Fallaci ha intervistato la Storia e il Potere senza freni; in questo libro sono citati alcuni di questi personaggi come Loan, Kissinger e Nguyễn Cao Kỳ.
Episodio carico di emozioni dolorose è il suo tentativo fallito di adottare una bambina vietnamita, che lascerà un segno nella giornalista; anni dopo scriverà Lettera a un bambino mai nato.

Secondo volume: Ilaria Alpi. Armi e veleni, le verità interrotte, a cura di Lucia Guarano, con i disegni di Mattia Ammirati e un’intervista a Luciano Scarlettari.

La storia di Ilaria Alpi è una di quelle storie di cui non si parla abbastanza, ancora avvolte da dubbi e misteri, che purtroppo la maggior parte di noi conosce sommariamente o proprio non conosce: Ilaria Alpi era una giovane giornalista, assassinata a quasi trentatré anni in Somalia, in piena guerra civile, dove era inviata del Tg3. Il suo compito era quello di raccontare la guerra, la disperazione di un popolo, la sua attenzione era rivolta soprattutto alle vittime del conflitto, le donne e i bambini.

Vivendo sul campo si accorge di qualcosa che non torna, così il suo mirino si sposta e inizia l’inchiesta che, con molta probabilità, le costò la vita: scava nel mondo della cooperazione internazionale e tutto quello che nasconde, un traffico di armi e rifiuti tossici e radioattivi. È entrata in un circolo molto pericoloso, di quelli per cui si può arrivare ad uccidere un giornalista scomodo.
Ma Ilaria è una Giornalista, di quelle vere, non si ferma e continua a indagare, fino a quel misterioso viaggio a Bosaso di cui non si sa quasi nulla, quel 20 marzo 1994, quando in circostanze sconosciute viene assassinata insieme al suo operatore Miran Hrovatin.

Sono passati quasi ventisette anni e ancora non abbiamo una risposta per queste morti, una giustizia per questi operatori della verità, ma abbiamo avuto, invece, una terza vittima, Hashi Omar Hassan, l’uomo che ha trascorso sedici anni in carcere da innocente, un capro espiatorio usato per nascondere la verità. Tutto questo è portato nuovamente in vita dai disegni di Mattia Ammirati e dalle parole di Scalettari.

Il terzo volume è una testimonianza in prima persona, la storia di Giuliana Sgrena narrata dalla giornalista stessa e illustrata da Irene Carbone. Il titolo di questo volume “Giuliana Sgrena. Baghdad, i giorni del sequestro”.

È il febbraio del 2005, Giuliana Sgrena è a Baghdad, è periodo di votazioni. Dopo aver assistito a un incontro dello Sheik Hussein, la giornalista viene rapita: durerà un mese, percepito come un’eternità. Solitudine, paura, alienazione, sono queste le sensazioni riportate dalla Sgrena anche grazie alle immagini di Irene Carbone.
La giornalista racconta i dettagli più profondi di questa reclusione, dalla paura, al non distinguersi del giorno e della notte, al trascorrere del tempo scandito dal richiamo alla preghiera e a uno stratagemma ideato da lei stessa con dei nodi alla sua pashmina per segnare i giorni. Durante quel mese chiusa in una stanza le viene rivolta la parola quasi solamente da una donna misteriosa, integralmente velata, che la interroga e a cui ha potuto rivolgere alcune piccole richieste.

Intanto in Italia sorgono manifestazioni per la liberazione della giornalista. Arriva finalmente la liberazione, ma l’aria di libertà è poca: Giuliana Sgrena viene liberata grazie alla mediazione dei servizi segreti militari italiani. Durante il trasferimento all’aeroporto di Baghdad, però, mentre sulla capitale irachena imperversa un violento temporale, l’auto sulla quale viaggia la giornalista viene illuminata da un potente faro e immediatamente investita da una pioggia di colpi. I colpi provengono da “fuoco amico”, dagli americani. Uno dei funzionari del SISMI a bordo dell’auto, Nicola Calipari, rimane ucciso sul colpo, mentre cerca di proteggere la giornalista, che rimane ferita a una spalla. Portata in ospedale, in rientro a Roma sarà più lungo del previsto.

Quarto volume, forse quello che mi ha fatto più male. “Se chiudo gli occhi. La guerra in Siria dai racconti dei bambini”, a cura di Francesca Mannocchi con le immagini della protagonista della storia, Diala Brisly.

In realtà non è una sola storia, ma a quella di Diala se ne aggiungono altre, quelle di tutti i bambini siriani strappati alla loro terra, alla loro educazione, alla loro infanzia. Diala Brisly è un’artista e fumettista siriana di fama internazionale. È nata in Kuwait, ma a dieci anni si trasferisce in Siria e la sensazione è quella di trovarsi in un luogo di prigionia. Inizia sin da subito la sua rivoluzione privata, che la porterà a scappare dalla sua terra da adulta e a rifugiarsi in Turchia, poi in Libano e infine in Europa.

La testimonianza di Diala Brisly ci mostra un mondo di cui troppo spesso ci dimentichiamo, tutti quei siriani fuggiti dalla loro terra, profughi senza un’appartenenza, senza più una casa. E a pagarne le conseguenze più care sono proprio i bambini a cui viene privata l’innocenza dell’infanzia, l’educazione che alla fine li porterà a prendere delle scelte violente o dolorose.
La pace si può ottenere solo partendo da un popolo istruito. E così sono raccontate e illustrate le storie ipotetiche ma realistiche di quattro bambini e bambine siriani, bambini feriti, spose bambine, bambini lavoratori, bambini a cui vengono messi in mano dei fucili, bambini sulle cui spalle ricade il peso della famiglia.

Il quinto volume è dedicato a Zehra Doğan, l’artista e giornalista curda, arrestata per aver condiviso con il mondo un suo dipinto raffigurante la distruzione della città di Nusaybin dopo gli scontri tra le forze di sicurezza e gli insorti curdi. Il volume, “Zehra Doğan. La mia guerra a colori per il Kurdistan”, racconta la lotta dell’artista/giornalista per dar voce alle donne e alle sofferenze anche durante il periodo di prigionia.

A cura di Francesca Nava, illustrato da Creative Nomads Studio, il libro contiene in esclusiva la lettera clandestina che Zehra Doğan riuscì a inviare dalle carceri turche.
In questa graphic novel, l’artista curda ci mostra con immagini e parole un mondo apocalittico, quasi surreale, ma è tutto vero. In questo mondo lei e altre donne forti e piene di coraggio hanno fondato “Jinha” – un’agenzia di stampa femminista con un personale tutto femminile, per dare voce a quelle donne a cui la voce è stata tolta. Zehra è un’artista che ha bisogno di trasmettere attraverso la sua arte quello che le capita intorno, così dipinge la distruzione della città di Nusaybin e sugli edifici distrutti ci mette una bandiera turca. Questo le fa guadagnare un’accusa per propaganda terroristica; viene così arrestata e finisce in galera per quasi tre anni.

Ma la sua arte non si ferma, chiede dei materiali per dipingere e le vengono negati, decide così di usare quello che le capitava: capelli, olive, curcuma e persino il suo sangue. Grazie al suo avvocato riesce ad inviare una lettera clandestina a tre registe italiane – autrici del documentario “Terroriste, Zehra e le altre” – e così Zehra Doğan racconta la sua storia, il massacro del popolo curdo e le condizioni di tortura psicologica e di privazioni vissute nelle carceri turche da lei e dalle sue compagne di cella.

Una testimonianza fortissima, difficile da digerire, che vive anche grazie alla potenza iconografica della sua produzione artistica e alle immagini del Creative Nomads Studio (immagini del documentario). Zehra Doğan è stata scarcerata il 24 febbraio 2019. Oggi vive in Europa in modalità nomade ed espone le sue opere in tutto il mondo.

Il sesto volume si intitola “Rwanda. I giorni dell’oblio”, è a cura di Martina di Pirro e Francesca Ferrara e contiene un’intervista a Tiziana Ferrario.

Un massacro, un genocidio di cui si è parlato ben poco. È di questo che tratta questo volume, un massacro che fa male solo a immaginarlo. 104 giorni, 1.074.017 morti. Il genocidio dei tutsi del Ruanda fu uno dei più sanguinosi episodi della storia dell’umanità del XX secolo.
Due popolazioni portate a odiarsi: l’odio interetnico fra Hutu e Tutsi costituì la causa scatenante del conflitto, ma l’idea di una differenza di carattere razziale fra queste due etnie è estranea alla storia ruandese e rappresenta in realtà uno dei lasciti più controversi del retaggio coloniale belga. Come arrivano due popolazioni a odiarsi fino a massacrare una delle due? Attraverso privazioni, menzogne e influenze da parte di un terzo soggetto.

In questa graphic novel, attraverso personaggi immaginari, ma reali, viene mostrata l’origine dell’odio e il silenzio successivo. La storia del genocidio dei tutsi è anche la storia dell’indifferenza dell’Occidente di fronte a eventi percepiti come distanti dai propri interessi. Ed è anche questa indifferenza che attraverso questa storia e queste vivide pagine si vuole denunciare.

Ultimo volume: “Afghanistan. Bulletproof diaries: cronache di una reporter di guerra”, la testimonianza di Barbara Schiavulli, disegni di Emilio Lecce e una fortissima intervista a Lailuma Nasiri.

Barbara Schiavulli è una delle più famose giornaliste di guerra italiane, negli ultimi vent’anni ha collaborato con i maggiori quotidiani, settimanali e mensili e con diverse emittenti radio. Bulletproof – a prova di proiettile, questo è il termine con cui definire questa grande reporter. In questo volume viene raccontata la storia di un Paese che per quarant’anni ha visto succedersi guerre e che ha trovato una flebile pace grazie a quelle forti voci che non si arrendono.  Quattro decenni di guerra, analfabetismo, povertà, donne che lottano ma spesso soccombono alle tradizioni, «le donne possono essere fragili, ma mai deboli».

Oltre a raccontare gli avvenimenti che si sono succeduti in questi anni di lotte, fra talebani e soldati internazionali, la Schiavulli porta una riflessione sul mestiere del giornalista, che oggi sta perdendo quel mordente che testimonianze come quelle di “Donne sul fronte” hanno difeso ed elevato. Lo fa raccontando la verità dell’Afghanistan, le storie dietro ogni persona che calpesta le strade di quel Paese: «La vita della gente era come la trama dei tappeti che coprivano i pavimenti della casa».

Questa serie “donne sul fronte” mi ha rapita, conquistata, fatta sentire inerme, ma anche consapevole del potere dietro ogni parola. Il mondo è pieno di grandi voci che meritano di essere ascoltate.

I sette volumi usciti in edicola sono reperibili su https://www.paperfirst.it/in-edicola/

@Noemi Spasari, 2021

Una risposta a ““Donne sul fronte”, la serie di graphic journalism e la lotta per la verità”

I commenti sono chiusi.